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Chiesa e convento S. Antonio da Padova

Con la Bolla papale di Martino V del 1° ottobre 1427 i Frati Minori di Sant’Antonio di Padova furono incaricati di costruire un Monastero nel territorio di Teano. L’incarico fu dato a due frati, Fra Martino di Campagna e Fra Nicola di Castellammare. I due monaci scartarono la parte bassa della città in quanto troppo rumorosa e priva dei requisiti di pace e di silenzio suggeriti da San Francesco. Chiesero, pertanto, alla famiglia Galluccio, signori di Teano, il permesso di costruire su una loro proprietà, proprio sulla cima della collina che si innalzava a Sud della città. I Galluccio aderirono con entusiasmo alla richiesta e donarono ai monaci non solo l’area per la costruzione del convento, ma anche notevoli possedimenti intorno ad essa. Un anno dopo, nel 1428, la costruzione del Convento, nel suo nucleo originario costituito dal chiostro, dal refettorio  e dalle celle che si affacciavano su di esso, era già stata portata a termine tanto che il complesso potè essere inaugurato e dedicato al Santo di Padova nello stesso anno. Per ringraziare la famiglia Galluccio, i frati apposero nel chiostro lo stemma della famiglia: un leone che suona l’arpa ed un’aquila bicipede coronata.

La costruzione consisteva di un elegante chiostro quadrato circondato da un corridoio delimitato verso l’interno da un basso muretto in tufo. Il corridoio si affaccia sul chiostro con ampi finestroni ad arco acuto sorretti da pilastri a fasci ed a volte a crociera. I capitelli che ornano i pilastri sono in stile gotico ornati con foglie di cardo tutti diversi tra loro. Il pilastro, basso e tozzo, dalla parte interna ed esterna, porta mezze colonne sporgenti al piano. Per la costruzione dei finestroni, dei pilastri e degli archi sono state utilizzate pietre di tufo estratte da una vicina cava della frazione di Casi. Le pietre di tufo, di vario colore, danno all’insieme un elegante effetto pittorico. Di particolare bellezza ed eleganza sono i portali delle celle  con piedritti ed architravi ornati di fasci di colonnine. Al centro del Chiostro esiste tuttora un pozzo che la tradizione vuole essere stato scavato su indicazione di San Bernardino da Siena durante il suo soggiorno in questo convento. Nei secoli successivi alla sua fondazione il “Pozzo di San Bernardino” è stato oggetto di pellegrinaggi di massa in quanto alla sua acqua si attribuiva la virtù di guarire dalle malattie. Di grande valore artistico è certamente il rivestimento di maioliche che corre lungo le pareti del refettorio, opera virtuosistica di maestri decoratori della scuola napoletana. Nel XV secolo il Chiostro fu arricchito da uno straordinario ciclo di affreschi che, sviluppandosi lungo le quattro pareti interne dei corridoi,  raccontava con la brillantezza dei colori di ascendenza giottesca e con l’inserimento di realistici particolari di vita quotidiana, la vita del Santo. Quello che resta degli affreschi danno contezza dello straordinario valore documentale e dell’eleganza formale con cui l’anonimo pittore decorò il Chiostro.

Soltanto in un secondo momento, grazie alle cospicue offerte dei fedeli che affluivano al convento,  fu costruita al fianco del chiostro l’attuale chiesa dedicata al Santo di Padova. La Chiesa si presenta ad una sola navata rettangolare che termina in un presbiterio occupato da un coro ligneo e da un altare  maggiore in marmo in stile barocco. Ai due lati della porta d’ingresso sono apposte due lapide: quella esistente sulla parete destra ricorda la sepoltura del giureconsulto Francesco Toraldo, morto di febbre maligna nel 1665; la lapide posta sul lato sinistro ricorda il recupero ed il restauro della chiesa, dopo un lungo periodo di abbandono, voluto nel 1903 per iniziativa di Monsignor Alfonso Giordano. Ai lati della navata si aprono sei cappelle, tre a destra e tre a sinistra. Sul lato destro le cappelle sono dedicate all’Addolorata, a San Francesco, a San Pasquale Baylon. Sul lato sinistro a San Michele,  a Sant’Antonio e a San Bonaventura.  Di rilievo è il quadro settecentesco raffigurante S. Michele  Arcangelo che mette in fuga i demoni, collocato nella prima cappella a sinistra. Tra la seconda e la terza cappella a sinistra vi è una piccola cappellina adibita a sepoltura gentilizia della famiglia D’Amato: lungo le pareti sono affrescate la figura dell’Angelo che porge il saluto a Maria, l’Adorazione dei Magi sfarzosamente vestiti e, nel soffitto, il Padre Eterno che regge in una mano il globo terraqueo. Nella quarta cappella a sinistra è collocata una statua di marmo di marmo di San Bonaventura del 1759 e, sulla parete sinistra, vi è un affresco raffigurante la comunione di S. Bonaventura.

Molto travagliata è stata nel corso dei secoli la vicenda di questo complesso monastico. Per circa quattro secoli il Convento dei Frati Minori di Sant’Antonio di Padova ha avuto un ruolo rilevante nell’ambito del monachesimo francescano, sia per il contributo dato alla cultura e allo studio della dottrina cristiana dalla  numerosa comunità di monaci che in esso operavano, sia per il lavoro missionario svolto dai suoi monaci nel nord dell’Africa ed in Cina. Il convento  disponeva di una straordinaria biblioteca, in larga parte  donata ai frati  dal Milanese Ottavio Boldoni. Purtroppo buona parte della biblioteca finì in cenere a seguito dell’incendio appiccato  al convento dalle truppe del generale Championet nel 1799. Dopo l’Unità d’Italia, con le leggi del 1866, fu disposta la soppressione del  Convento, i monaci dovettero abbandonare il cenobio e la sua proprietà passò prima nelle mani del Demanio e successivamente al Comune. Nel 1897 i frati francescani riuscirono con proprie risorse a stipulare un atto di acquisto del convento, restaurarono la chiesa ed il chiostro gravemente danneggiati dal lungo abbandono e nel settembre del 1903 ricostituirono la famiglia religiosa sotto il controllo di un guardiano. Nel corso della seconda guerra mondiale il Convento di Sant’Antonio ha offerto un sicuro riparo alle migliaia di casse di libri trasferiti nelle sue celle dalla Biblioteca Nazionale di Napoli e dal Monastero di Montecassino perché non trovassero distruzione nei bombardamenti degli alleati.